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Articoli di Lorena Bianchetti

L’estate con i nonni

Ogni anno, quando arriva l’estate, quando la luce del tramonto inizia a diventare più intensa e a fare fatica ad andarsene, vivo sensazioni di grande serenità.

Sin da quando avevo quattro anni, quella luce e quel caldo hanno segnato, per tanto tempo, l’inizio delle vacanze e dunque della mia trasferta in campagna. Appena si chiudeva la scuola infatti, mi facevo accompagnare dai miei nonni paterni, con la loro mitica 850 grigio scura, a Velletri, nei castelli romani, dove abitavano i miei nonni materni.

Facevo la valigia, salutavo i miei genitori che, per tre mesi, vedevo solo quando venivano a riposarsi in campagna nel giorno di chiusura della pasticceria. Nessuno mi obbligava a fare quella scelta, anzi, ed io, ogni anno attendevo quell’appuntamento con trepidazione. A Velletri in realtà non c’era niente materialmente ma avevo tutto ciò di cui avevo veramente bisogno. I miei nonni erano contadini, producevano vino e vivevano nella bellezza della semplicità più totale. Nonno si chiamava Sante e anche se non ho mai capito il motivo, tutti lo chiamavano Ettore.

Mia nonna invece Adele, ma per noi nipoti era semplicemente, nonna Lina. Potrei descrivere con una precisione maniacale i movimenti di mio nonno quando rientrava a casa percorrendo una stradina con la zappa sulla spalla. Non so perché, ma si cullava sulle ginocchia ad ogni passo che faceva e il ricordo di quella canottiera bianca sui suoi pantaloni blu mi fanno sentire ancora tra le mani la terra ruvida e granulosa con cui giocavo. Nonno era di poche parole, tranne nei momenti in cui, sotto il pergolato mi raccontava dell’incursione dei tedeschi in casa durante la sua prima notte di nozze.

Mi avrà detto quella storia un centinaio di volte ma io facevo sempre finta di non averla mai udita: bloccavo tutto e mi sedevo accanto a lui. “Ecco li’, nel tinello, vedi dove sono le botti? Era notte, nonna ed io stavamo per andare a dormire, quando ad un certo punto sentimmo sfondare la porta…poi delle grida e infine, i fucili puntati addosso”. I tedeschi quella sera distrussero casa e spararono sulle botti piene del vino frutto di tanto lavoro, bruciarono i mobili per scaldarsi e costrinsero i miei nonni a lasciare l’abitazione. C’era scritto tanto sul volto di nonno: le sue rughe trasudavano fatica e onesta’.

Insieme giocavamo a carte e, ogni mattina, mi riempiva di gioia scendere nel piano di sotto e trovare, sul tavolo della cucina, un suo pensiero per me: ogni volta, a darmi il buongiorno c’era un fico (sono golosissima) o le nocciole o un fiore, insomma qualcosa, dietro cui in realtà c’era il suo sorriso. Con nonna invece adoravo cucinare, lavare i piatti e, soprattutto, prendere l’autobus per andare a fare la spesa nel centro del paese. Per l’occasione indossava un abito speciale e mi divertivo troppo a seguire le sue conversazioni con i negozianti che conosceva da anni.

A settembre, quando i miei genitori venivano a prendermi, nonna si appoggiava sulla ringhiera del balcone davanti alla porta per salutarmi ma, staccarsi, non era facilissimo. Piangeva ogni volta che andavo via ed io con lei. Dal finestrino la guardavo fino a che il percorrere la strada non la inghiottiva completamente ma con lei, spariva anche tutta la spensieratezza, le corse in bicicletta, la casetta di legno che nonno puntualmente mi costruiva, l’affetto e la bellezza del loro semplice calore familiare scandito intorno ad un tavolo di legno dove ogni giorno, mangiavamo e parlavamo fino all’imbrunire.

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